Secondo i dati forniti dall’associazione medici diabetologi (AMD), in Italia, ogni anno, circa una donna su dieci in gravidanza è accompagnata dal diabete, che può essere pre-gestazionale (già presente nella donna prima che questa rimanga incinta) o gestazionale (che compare per la prima volta nel corso della gravidanza).
LA DIAGNOSI DEL DIABETE GESTAZIONALE
Il diabete gestazionale (GDM) solitamente si manifesta nella seconda parte della gravidanza e per questo motivo viene eseguito lo screening alla 24-28 settimana di gestazione. E’ importante prestare particolare attenzione verso questa condizione considerate le possibili complicanze materno-fetali che il GDM può causare e i potenziali rischi a cui le donne affette e i loro figli sono esposti nel corso della loro vita. La presenza di alcune condizioni di rischio, infatti, come l’obesità, il GDM pregresso e l’alterata glicemia a digiuno prima della gravidanza o all’inizio della stessa possono determinarne un’insorgenza precoce.
La diagnosi di GDM attiva un processo di cura che coinvolge professionisti sanitari e la richiesta di specifici presidi diagnostico-terapeutici (utili per l’auto-monitoraggio glicemico e dello stato di chetosi e per l’eventuale terapia insulinica). Tutto ciò espone la donna con GDM a problematiche psicologiche dovute alla medicalizzazione della propria gravidanza.
QUALI NOVITA’ NELLA GESTIONE DEL DIABETE GESTAZIONALE?
La ricerca di nuove soluzioni terapeutiche efficaci per il GDM costituisce una strategia utile a migliorare l’esito della gravidanza e la prevenzione potrebbe rappresentare un importante passo in avanti per il miglioramento della salute (della madre e del bambino).
Nel corso degli ultimi anni è stata testata l’efficacia di diversi approcci preventivi. La sola terapia medica nutrizionale, anche se associata ad una costante attività fisica, non si è dimostrata efficace per la prevenzione del GDM.
Una strategia di prevenzione nei confronti del GDM, documentata in letteratura, è la supplementazione con inositolo. L’inositolo è una sostanza ampiamente diffusa in natura, essendo presente in diversi alimenti, quali creali, verdure, carni e altri alimenti. Ha la struttura molecolare di un cicloesano e può presentarsi in 9 differenti isoforme, tra cui, la forma più abbondante a livello cellulare il Myo-inositolo (MI).
MYO-INOSITOLO E DIABETE GESTAZIONALE, LE PIU’ RILEVANTI EVIDENZE SCIENTIFICHE
Il ruolo preventivo del MI è stato documentato negli ultimi anni da alcuni studi clinici che hanno coinvolto alcune categorie di donne maggiormente a rischio di sviluppare il GDM. In particolare sono stati studiati gli effetti della supplementazione di MI in donne:
Il disegno di tali studi era analogo: alla 12°-13° settimana di gestazione nel gruppo sperimentale veniva avviata una supplementazione di MI (4 g/die) e acido folico (400 mg/die). La supplementazione veniva poi continuata fino al termine della gravidanza. L’outcome primario era lo sviluppo di GDM; gli outcome secondari erano principalmente gli esiti perinatali. I risultati hanno evidenziato un effetto preventivo della supplementazione di MI nello sviluppo di GDM rispetto al gruppo che non aveva ricevuto supplementazione, anche dopo aggiustamento per i principali fattori di rischio. In particolare, il MI ha ridotto:
con familiarità per DM; – 63% (p-0,03);
obese: meno 70% con significativa riduzione dell’insulino-resistenza
(p-0,04)
In sovrappeso: -67%
L’effetto della supplementazione di MI sulla prevenzione del GDM è stato dimostrato da una metanalisi Cochrane: l’effetto finale si traduce in una riduzione del rischio pari al 57% e una riduzione significativa dei livelli glicemici di tutti i punti della curva di carico diagnosticata.
Rispetto agli esiti prenatali, la supplementazione con MI, ha ridotto il tasso di bambini macrosomici, parto prematuro, ipertensione gestazionale e la necessità di ricorso alla terapia intensiva neonatale. Dal punto di vista della sicurezza, i risultati appaiono molto rassicuranti: in nessun caso si sono verificati effetti avversi o complicanze.
Nel 2018 Pintaudi e i suoi colleghi hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare gli effetti del trattamento con MI sul metabolismo glucidico in donne con GDM, attraverso l’utilizzo di un sistema di monitoraggio continuo del glucosio (GCM). Lo studio ha coinvolto 12 donne (età media 34 anni) con GDM (test OGTT eseguito nella settimana 24-28). Sei donne hanno ricevuto la somministrazione di 2g di MI in associazione a 200 mcg di acido folico per due volte al giorno (gruppo trattato), mentre le restanti sei donne hanno ricevuto solo acido folico (gruppo controllo). Il trattamento è stato eseguito dalla trentesima settimana di gravidanza fino al parto. La valutazione del metabolismo glucidico, tra l’inizio e la fine del trattamento, è stata condotta su alcuni parametri quali: ampiezza media dei picchi di glicemia (MAGE), deviazione standard (DS) e coefficiente di variabilità e di varianza glicemica. I risultati hanno dimostrato l’effetto positivo del trattamento con MI sulla variabilità glicemica. Le donne del gruppo trattato hanno dimostrato una riduzione della glicemia già nei primi giorni di trattamento. Inoltre, il trattamento con MI permette una minore variazione dei picchi glicemici (MAGE) in maniera statisticamente significativa (p<0,001). Le variazioni di deviazione standard, misurate alla fine del trattamento, sono aumentate in entrami i gruppi ma la differenza è stata inferiore nelle donne trattate con MI, con valori rispettivamente di 6 nel gruppo trattato e di 13,7 nel gruppo controllo (p<0,001). A seguito di questi risultati, è possibile evidenziare il ruolo importante del MI nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue. In particolare, questo effetto è stato più significativo nei primi tre giorni di trattamento per poi mitigarsi come conseguenza della stabilizzazione dei livelli di glucosio. La riduzione del MAGE, indotto dal trattamento con MI, ha fornito una chiara indicazione del miglioramento della secrezione di insulina in fase precoce. Una bassa variabilità glicemica riduce di conseguenza la necessità di dover ricorrere al trattamento con insulina, consentendo una miglior gestione farmacologica del GDM. Gli autori hanno quindi concluso che il MI è utile per ridurre i livelli medi di glucosio e la variabilità glicemica nelle donne con diabete gestazionale.
Nel 2020 Vitale e i suoi colleghi hanno condotto uno studio che aveva tra gli obiettivo quello di valutare l’incidenza di GDM in donne in gravidanza e sovrappeso trattate con MI e acido folico. Lo studio prospettico, randomizzato, controllato con placebo ha compreso 223 donne (25 < BMI < 30) distribuite in due gruppi: gruppo trattato (N=110) che ha assunto per via orale 2 g di MI + 200 mcg di acido folico, due volte al giorno, dalla 12°/13° settimana di gravidanza fino a tre settimane dopo il parto; gruppo placebo (N=113) che ha assunto 400 mcg di acido folico al giorno. L’incidenza di GDM è stata significativamente ridotta nel gruppo trattato (N=9; 8,2%) rispetto al gruppo placebo (N=24; 21,2%) (p = 0,006). Inoltre, 18 donne del gruppo placebo e 7 donne del gruppo trattato sono state sottoposte al trattamento con insulina alla 26°/27° settimana, mentre sono state 18 del gruppo placebo e 9 del gruppo trattato alla 31°/32° settimana. A distanza di tre settimane dopo il parto, 13 donne del gruppo placebo e 1 donna del gruppo trattato hanno continuato il trattamento con insulina per mantenere lo stato euglicemico. Gli autori hanno concluso che la supplementazione di MI in gravidanza aiuta a ridurre l’incidenza di diabete gestazionale in donne con fattori di rischio per sovrappeso e obesità.
Nel 2021 il professore D’Anna e il suo gruppo di lavoro hanno condotto uno studio clinico randomizzato e controllato per valutare l’associazione di MI e a-lattoalbumina (a-LA) in donne con GDM per ridurre l’insulino-resistenza e l’eccessiva crescita fetale. Lo studio, di 12 mesi fa, ha coinvolto 120 donne con diagnosi di GDM randomizzate in due gruppi (1:1) e trattate per due mesi con 2 g di MI, 50 mg di a-LA e 200 mcg di acido folico (gruppo trattato) due volte al giorno, o con 200 mcg di acido folico due volte al giorno (gruppo controllo). L’obiettivo primario è stato valutare la variazione della resistenza dell’insulina misurata prima e dopo il trattamento, dopo lo studio dell’HOMA-IR. Tra gli obiettivi secondari, la valutazione della crescita fetale effettuata mediante la misurazione ecografica dei centili di circonferenza addominale e dello spessore del grasso. Dopo 2 mesi, nel gruppo trattato si è osservato una riduzione significativa dell’insulino-resistenza (valori dell’HOMA index di 3,1+ 1,4 vs 6,1 + 3,4,p = 0,0002) e della crescita fetale (centili di circonferenza addominale 54,9 + 23,5 vs 67,5 + 22, 6, p = 0,006) rispetto al gruppo controllo. Tra gli esiti clinici secondari, è stata osservata una significativa riduzione del numero di donne che necessitavano del trattamento con insulina dopo la supplementazione con MI, a-LA e acido folico (6,7% vs 20,3%, p = 0,03). L’associazione di MI e a-LA si è dimostrata efficace per migliorare l’insulino-resistenza e l’eccessiva crescita del feto in donne con GDM. Inoltre, nel gruppo trattato, il numero di donne che hanno ricevuto il trattamento con insulina era ridotto di un terzo, rispetto al gruppo controllo. Questo è un risultato terapeutico importante poiché il trattamento con insulina è spesso responsabile di forti disagi nelle donne per via delle iniezioni giornaliere multiple, per il rischio di ipoglicemia e per l’eccessivo aumento ponderale. Infine è stato dimostrato che la combinazione di MI e a-LA può prevenire l’eccessivo aumento della circonferenza addominale e lo spessore del tessuto adiposo sottocutaneo, che in caso di GDM aumenta progressivamente. Gli autori dello studio hanno concluso che: la supplementazione di MI e a-LA è in grado di ridurre l’insulino-resistenza e l’eccessiva crescita fetale in donne con GDM.
In conclusione, il MI è una sostanza in grado di prevenire il GDM in donne a rischio e la sua supplementazione dovrebbe essere presa in considerazione sin dalle prime fasi della gravidanza.
Fonti
Articolo tratto da: hcps.lolipharma.it
Secondo una revisione della letteratura pubblicata sul Journal of Clinical Medicine, dopo un’infezione da COVID-19 le donne possono avere un ciclo mestruale prolungato e una diminuzione del volume mestruale, indipendentemente dalla gravità della malattia.
“Sono state condotte ricerche approfondite su COVID-19 e sui suoi effetti sul sistema respiratorio, nervoso e circolatorio; tuttavia, il suo impatto sul sistema riproduttivo è relativamente meno noto” spiega Vojka Lebar, della University of Ljubljana, in Slovenia, primo nome dello studio. I ricercatori hanno effettuato ricerche su Medline, Chocrane Library e Scopus, e hanno individuato tre studi idonei a chiarire la situazione. Uno dei lavori ha esaminato gli effetti dell’infezione da SARS-COV-2 sui cambiamenti negli ormoni sessuali e sul ciclo in 237 donne in età fertile senza precedenti irregolarità mestruali. Di queste donne, 90 avevano avuto forme gravi di COVID-19, e le restanti una malattia lieve. Quasi il 20% delle partecipanti ha avuto una diminuzione significativa del volume mestruale, senza differenze significative tra casi lievi e gravi. Un quinto delle donne ha riferito cicli mestruali prolungati rispetto alla durata del ciclo mestruale pre-infezione.
La durata del ciclo mestruale e il volume mestruale differivano significativamente tra le donne infettate e i controlli sani, anche se lo studio ha suggerito che le variazioni erano temporanee.
Un altro studio, condotto in Cina, ha valutato l’associazione tra funzione ovarica e COVID-19, e ha incluso 78 donne di età pari o inferiore a 50 anni. Le pazienti con COVID-19 in forma grave hanno mostrato amenorrea, cicli irregolari, volume mestruale e dolore più elevati rispetto ai casi non gravi, sebbene le differenze non fossero statisticamente significative.
Un terzo studio comprendeva 127 pazienti con COVID-!9 di età compresa tra 18 e 45 anni. Tra queste, 20 donne hanno riferito tramite questionario cambiamenti del ciclo mestruale. Le variazioni comuni hanno incluso mestruazioni irregolari, mestruazioni scarse e aumento dei sintomi della sindrome premestruale. Le pazienti con cambiamento del ciclo mestruale avevano maggiori probabilità di manifestare sintomi di COVID-19 come affaticamento, mancanza di respiro, mal di testa e dolori in particolare muscolari.
Journal of Clinical Medicine 2022. Doi: 103390/jcm11133800
https://doi.org/10.3390/jcm11133800
Articolo tratto da Doctor33.it
Il microbiota vaginale svolge un’importante funzione protettiva dell’apparato genitale femminile attraverso diversi meccanismi. Recenti evidenze supportano l’ipotesi che un’alterazione del microbiota vaginale, caratterizzata da deplezione di Lattobacilli acidofili e proliferazione di altre specie, sia alla base dell’acquisizione dell’infezione da HPV, della sua persistenza e dell’evoluzione neoplastica.
L’infezione da HPV è ampiamente diffusa nelle donne sessualmente attive (circa nell’80%), fino ai 50 anni di età. Nel 90% dei casi l’infezione tende a risolversi mediante clearance virale spontanea nell’arco di un anno, mentre la persistenza rappresenta un fattore di rischio di evoluzione oncogena. Studi recenti hanno dimostrato che il microbiota vaginale non dominato dai lattobacilli, presenta più del doppio del rischio di contrarre un’infezione da HPV oncogeno, indipendentemente dalla copertura vaccinale e dall’età.
La composizione del microbiota vaginale, in particolare la prevalenza del Lattobacillo acidofilo, è influenzata da diversi fattori:
Il Lattobacillo acidofilo contribuisce al mantenimento della eubiosi e della funzione di barriera protettiva dell’epitelio cervicale, impedendone l’ingresso dell’HPV nei cheratinociti cervicali e contrastando la persistenza dell’infezione, mediante diversi meccanismi:
Alcuni studi hanno dimostrato che una condizione di disbiosi, con proliferazione di specie batteriche patogene, come quelle responsabili della vaginosi batterica (es. Gardenella V.), potrebbe favorire il ciclo di replicazione virale, la persistenza dell’infezione da HPV e la trasformazione neoplastica.
La disbiosi si associa inoltre a:
Alcuni ricercatori suggeriscono che l’HPV stesso potrebbe contribuire al cambiamento della stabilità e della composizione del microbiota vaginale.
Ulteriori studi sulla relazione tra microbiota vaginale e infezione da HPV potrebbero essere utili per comprendere come mantenere l’eubiosi e rendere più efficace la prevenzione e il trattamento delle lesioni HPV-correlate.
Fonti
a cura di Carlo Maria Stigliano, AOGOI
Articolo tratto dal sito: Aogoi.it
Già in un blog precedente https://manage.wix.com/dashboard/74b6c8a9-5e50-462b-9968-0e683c2d18cf/blog/5e7ae5aa-d974-448a-b934-80f1ab93b99f/edit avevamo sottolineato come la plastica non sia solo un inquinante ambientale. Ora vorremmo portarvi a conoscenza di un altro dato.
Negli Stati Uniti, gli ftalati e altri estrogeno-simili sono responsabili di oltre 100.000 morti premature negli americani più anziani ogni anno. E non solo, ma sono responsabili di tutta una serie di disfunzioni severe che vanno da impotenza a alterazioni del concepimento e del concepito, ad esempio. Ma potete proteggervi facendo un semplice passo. Cerchiamo di spiegarci… Nel corso di una giornata, siete esposti a decine di migliaia di sostanze chimiche sintetiche. Queste tossine sono ovunque: negli alimenti che mangiamo, nei tessuti che indossiamo, negli articoli da toeletta che mettiamo sui nostri corpi, nei nostri dispositivi elettronici domestici e nei mobili su cui ci sediamo. Potreste non pensare al pericoloso effetto farmacologico che hanno sulla vostra salute … Ma secondo i ricercatori, queste sostanze chimiche quotidiane sono collegate a 107.000 morti premature tra gli anziani ogni anno.[1] Ormai, probabilmente acquistate solo prodotti con etichette come “senza BPA”, “senza parabeni” o “senza ftalati”. E probabilmente siete felici che queste sostanze chimiche vengano gradualmente eliminate e sostituite.
Vi esortiamo a non farvi ingannare. I ricercatori stanno già scoprendo che le sostanze chimiche che vengono utilizzate in sostituzione, e sono oltre 50, sono altrettanto dannose per la salute. Alcune sono anche peggiori.[2] È facile capire perché. Dopotutto, queste “sostituzioni più sicure” hanno quasi tutte la stessa identica struttura chimica del BPA. È quindi evidente che agiscono sul vostro organismo esattamente nella stessa maniera. Una nuova ricerca su queste sostanze chimiche sostitutive supporta questo … Uno studio recentemente pubblicato su 171 donne in gravidanza ha riscontrato una crescente esposizione ai sostituti del BPA, Bisfenolo-S (BPS) e Bisfenolo-F (BPF). Vale la pena notare che i passaggi chiave per un sano sviluppo sessuale maschile si verificano durante la gravidanza. Ciò rende crescente l’esposizione a BPS e BPF, entrambi i quali influiscono sulla salute riproduttiva, in particolare per le generazioni future. Ma questi composti pericolosi non sono solo una minaccia per le donne incinte e i loro bambini – ora minacciano tutti noi. È particolarmente preoccupante che siano state condotte così poche ricerche su queste tossine sostitutive, anche se il loro uso aumenta. Ma è già chiaro che non sono alternative sicure.
Proteggetevi in un mondo di plastica
Sfortunatamente, il vostro organismo non può tenere il passo con tutti i disgregatori ormonali nel nostro ambiente moderno. Ma ci sono anche buone notizie, Noi, infatti, consigliamo di integrare per aiutare a metabolizzare l’eccesso di estrogeni ed eliminare i disgregatori ormonali dal vostro corpo.
È triste pensare che si debba ricorrere a integratori per difenderci dal mondo esterno, ma cominciamo col cercare di evitare quanto più possibile le plastiche usate per contenere alimenti. Il vetro resta il principe, ma anche il consumo di cibi freschi, non preconfezionati e l’utilizzo di sacchetti di carta anche per le verdure è un buon sistema per ridurre questo tipo di inquinamento.
E se volete seguire un programma di disintossicazione alimentare anche usando gli integratori giusti, non esitate a contattarci per una consulenza: csaggioro.nutrizionista@gmail.com
Buona salute
Chiara Saggioro, nutrizionista, B.Sci., Ph.D.
Alfredo Saggioro, M.D.
Riferimenti:
Articolo tratto da: medicinafunzionale.org
Le orchidee (famiglia Orchidaceae) rappresentano il gruppo di piante da fiore più ampio e diversificato. Originarie delle zone tropicali e subtropicali di Asia, America centrale e America del Sud, per la loro bellezza, per la diffusione cosmopolita, e per l’elevata capacità di adattamento alla quasi totalità degli habitat, con l’eccezione delle aree desertiche e delle zone glaciali, la coltivazione delle orchidee a livello commerciale è in grande espansione nel mondo, e sta generando occupazione nei Paesi in via di sviluppo.
Nel 2020 il mercato globale delle orchidee è stato valutato pari a 5.152,1 milioni di dollari americani, e dovrebbe raggiungere i 7.051,3 milioni entro il 2027 con un tasso medio annuo di crescita (CAGR, Compound Annual Growth Rate) del 4,6% (https://www.alltheresearch.com/report/735/orchid-market).
La bellezza del fiore
Tanto da meritarsi l’appellativo de “Il fiore degli dei” (Berliocchi, 1966), le orchidee sono piante affascinanti per le loro infiorescenze lussureggianti, sensuali e misteriose. L’epoca in cui hanno avuto origine è controversa, ma è stato suggerito che sia 80-40 milioni di anni fa (Mya), dal tardo Cretaceo al tardo Eocene (Dressler, 1993).
I metodi di coltivazione tradizionale e, recentemente gli approcci biotecnologici hanno contribuito allo sviluppo di nuove varietà commercializzate come fiori recisi e piante propagate artificialmente caratterizzate da molteplicità di forme accattivanti e colori di straordinaria bellezza.
Se ne conoscono circa 30,000-35,000 specie [The Plant List, http://www.theplantlist.org/ (2019)], il 73% delle quali sono epifite (i due terzi della flora epifita del mondo), mentre circa il 25% sono terrestri (Atwood, 1986; Hsu et al. 2011; Vendrame e Khoddamzadeh, 2017).
Come con tutti gli altri organismi viventi, le orchidee odierne si sono evolute da forme ancestrali come risultato della pressione selettiva e dell’adattamento. La ricchezza di forme e colori dipende dalla diversità di strategie riproduttive ed ecologiche specializzate tra le quali un posto di primo piano è rivestito da interazioni specifiche tra fiori di orchidea e insetti impollinatori (Cozzolino & Widmer, 2005), da meccanismi di deriva genetica e selezione naturale (Tremblay et al. 2005), da interazioni obbligate tra piante di orchidea e micorrizze (Otero & Flanagan, 2006) e da epifitismo (Gravendeel, 2004).
Poco conosciute sono invece le specie spontanee, come quelle che vivono in Europa e nel bacino mediterraneo, tutte geofite, cioè con organi sotterranei che ogni anno emettono la parte aerea che produce i fiori. Tra le nostre orchidee proprio il genere Orchis ha dato il nome all’intera famiglia, per la forma dei due bulbi che ricordano due testicoli (appunto orchis in greco). Assai più piccole delle orchidee esotiche coltivate, mostrano una altrettanto elevata complessità di forme e colori che impreziosisce il patrimonio naturalistico del territorio che le ospita.
In Italia ne sono state identificate circa 200 tra specie e sottospecie, distribuite dalle Alpi alle isole, con un’alternanza di fioriture da gennaio a ottobre a seconda delle specie e dell’habitat (G.I.R.O.S., Gruppo Italiano per la Ricerca sulle Orchidee Spontanee, 2009-2016).
Non solo ornamentali
Generalmente conosciute per i bellissimi e delicati fiori, le orchidee sono meno note per l’uso in medicina che di fatto, sta acquisendo importanza solo ai giorni nostri. I generi chiave delle orchidee medicinali sono Ephemerantha, Eria, Galeola, Cymbidium, Cypripedium, Nevilia, Thunia, Bletilla e Anoctochilus (Szlachetko, 2001), e diverse nuove varietà ottenute con le moderne tecniche di coltivazione (Gutiérrez, 2010; Pant, 2013).
Le prime prove documentate sugli usi medicinali delle orchidee e sui loro effetti benefici sulla salute risalgono a 3000-4000 anni fa in opere letterarie giapponesi e cinesi (Reinikka, 1995; Bulpitt, 2005).
Ampiamente utilizzate nella medicina tradizionale cinese, specie come Dendrobium macrae, Orchis latifolia ed Eulophia campestris, e diverse altre, erano anche usate in Ayurveda nel sistema tradizionale indiano, ma molte altre specie erano note per le loro proprietà benefiche anche in Europa, Africa, America e Australia (Hossain, 2011; De et al., 2015). La medicina tradizionale cinese ha suggerito l’uso di routine di Bletilla striata, di diverse specie di Dendrobium e di Gastrodia elata componenti di preparazioni note rispettivamente con il nome di “Bai-Ji”, “Shi-Hu” e “Tian-Ma” per curare varie malattie.
In particolare, D. nobile era usato per le malattie renali, polmonari e dello stomaco, per la febbre, la bocca secca, il gonfiore, l’iperglicemia, la gastrite atrofica e il diabete. I tuberi di B. striata erano ampiamente utilizzati per la cura della tubercolosi, oltre che per la cura di gastriti e ulcere duodenali o sanguinamenti e pelle screpolata di piedi e mani. G. elata si dimostrava efficace per trattare mal di testa, vertigini, intorpidimento e crampi degli arti, emiplegia, epilessia, spasmi, emicrania, reumatismi, vertigini, nevralgie, paralisi facciale, disfrasia, convulsioni infantili, lombalgia, febbre, ipertensione e altri disturbi nervosi. Altri usi in Cina, Mongolia e Giappone comprendono purificazione del sangue, trattamento di pus, foruncoli, ascessi, gonfiori maligni, ulcere, e cancro al seno (Chen et al., 1994; Hossain, 2011).
Inoltre, la letteratura ayurvedica riporta l’uso di Habenaria intermedia, Malaxis muscifrea, Habenaria edgeworthi e Malaxis acuminata nella formulazione ayurvedica “Chyavanaprasha”, una gelatina che contiene un’alta percentuale di vitamina C, molti acidi grassi essenziali e diversi composti bioattivi (Singh e Duggal, 2009). Le proprietà medicinali delle orchidee sono infatti attribuite alla presenza di diversi metaboliti secondari dipendenti dalle specie e dalla provenienza geografica. In diverse orchidee medicinali ne sono stati identificati circa 300 tra cui più di 100 alcaloidi, flavonoidi, terpenoidi, chinoni, fenantreni, lignani e derivati dell’acido malico, succinico, tartarico e citrico (Gutierrez, 2010).
Gli effetti benefici di questi composti sulla salute umana comprendono attività antinfiammatorie, neuroprotettive, antimicrobiche, antitumorali, ipoglicemizzanti, antireumatiche e cicatrizzanti (Gutierrez, 2010; De et al. 2015; Aswandi & Kholibrina 2021). La validazione degli effetti è stata effettuata in molti casi mediante l’uso di saggi su cellule in vitro ed esperimenti su animali, generalmente topi (Kuo et al., 2009; Gutierrez et al., 2011). Ad esempio in uno studio preclinico Khouri e collaboratori (2006) hanno indicato l’efficacia dell’estratto vegetale di Orchis anatolica sulla fertilità nei topi maschi. In un altro studio è stato riportato come i componenti dell’estratto di Scaphyglottis livida, abbiano avuto un effetto rilassante sulle contrazioni cardiache nei topi (Saleem, 2007) e di come terpenoidi, saponine, alcaloidi e altre sostanze bioattive caratterizzanti l’estratto di un’orchidea terrestre, Eulophia epidendrum, abbiano dimostrato significative proprietà antinfettive e cicatrizzanti nei ratti (Maridass et al., 2008; Maridass, 2011). Inoltre diversi esperimenti condotti ancora su topi o diversi tipi di cellule di topo in vitro mostrano come i costituenti bioattivi di varie specie di Dendrobium esercitino funzioni epatoprotettive e immunomodulatorie (Ng et al., 2012). G. elata e i suoi principi attivi gastrodina, gastrodioside, vanillina, â-sitosterolo, alcol vanillilico e alcol ñ-idrossibenzilico sono stati inoltre ampiamente utilizzati nei ratti per il trattamento di reumatismi, disturbi cerebrali, malattie infiammatorie e mal di testa (Liu et al., 2002; Lee et al., 2006).
Recentemente un numero crescente di composti bioattivi, per lo più fenoli e flavonoidi, è stato isolato da diverse specie di orchidee e ne è stata analizzata la capacità di inibizione in vitro della proliferazione di linee tumorali del cancro della cervice uterina, di tumore al polmone e tumore al cervello. I risultati di questi esperimenti hanno indotto gli autori a suggerire una decina di specie di orchidee, in particolare D. longicornu, D. transparens, Rhyncostylish retusa e Vanda cristata come fonte potenziale di nuovi farmaci per il trattamento di forme aggressive di tumore (Pant et al., 2021).
Articolo tratto da: farmacista33 del 17 maggio 2022
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Aswandi, A., & Kholibrina, C. R. Ethnomedicinal properties of Orchidaceae by local communities in Lake Toba region, North Sumatra, Indonesia. In IOP Conference Series: Earth and Environmental Science (Vol. 914, No. 1, p. 012056). IOP Publishing. (2021).
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Patrizia Bogani
Dipartimento di Biologia
Benefici dell’attività fisica dopo il parto (2):
Ostacoli e facilitatori alla pratica dell’attività fisica nel periodo post-partum
Ostacoli alla pratica dell’attività fisica nel post-partum (5)
Fattori facilitanti l’attività fisica nel post-partum (5)
Esercizio e allattamento
Articolo tratto dal sito: med.chiccoaccantoavoi.it
Bibliografia
1. Physical Activity and Exercise During Pregnancy and the Postpartum Period: ACOG Committee Opinion, Number 804. Obstet Gynecol. 2020 Apr;135(4):e178-e188.
2. Campos MDSB, Buglia S, Colombo CSSS, Buchler RDD, Brito ASX, Mizzaci CC, Feitosa RHF, Leite DB, Hossri CAC, Albuquerque LCA, Freitas OGA, Grossman GB, Mastrocola LE. Position Statement on Exercise During Pregnancy and the Post-Partum Period – 2021. Arq Bras Cardiol. 2021 Jul;117(1):160-180
3. Minig L, Trimble EL, Sarsotti C, Sebastiani MM, Spong CY. Building the evidence base for postoperative and postpartum advice. Obstet Gynecol 2009;114:892–900.
4. Lee R, Thain S, Tan LK, Teo T, Tan KH; IPRAMHO Exercise in Pregnancy Committee. Asia-Pacific consensus on physical activity and exercise in pregnancy and the postpartum period. BMJ Open Sport Exerc Med. 2021 May 17;7(2):e000967. 5. Evenson KR, Mottola MF, Owe KM, Rousham EK, Brown WJ. Summary of international guidelines for physical activity after pregnancy. Obstet Gynecol Surv. 2014 Jul;69(7):407-14. 6. Cary GB, Quinn TJ. Exercise and lactation: are they compatible? Can J Appl Physiol 2001;26:55–75.
Oggi sappiamo che la metà di tutte le donne avrà l’osteoporosi entro i 60 anni. Una donna su cinque avrà una frattura dell’anca nella sua vita e il 50% di loro non camminerà mai più bene. Gli uomini non sono immuni a questo problema. Il 30% dell’osteoporosi si verifica nei maschi e il 50% degli uomini che soffrono di fratture dell’anca morirà entro un anno.
Sono dati drammatici.
Una nuova malattia?
L’osteoporosi che ora è così diffusa, un secolo fa era praticamente sconosciuta. È stata una rarità fino all’inizio del ‘900. Che cosa può essere successo? I nostri geni sono cambiati in cento anni?
La risposta è certamente no! I nostri geni richiedono migliaia di anni per cambiare e allora l’unico vero cambiamento cui abbiamo assistito è stato quello del nostro ambiente. La nostra dieta e il nostro stile di vita sono molto diversi rispetto a cento anni fa e questo ha causato un’epidemia di osteoporosi. Allora, cosa facciamo? Come possiamo invertire questo processo?
La Medicina e la Nutrizione Funzionale si occupano anche di questo e allora vogliamo farvi capire, con regole semplici, come tutto questo sia possibile. Basta un po’ di buona volontà.
Cominciamo con l’evitare tutto quello che è frizzante!
Le bevande gassate come bibite analcoliche, spumanti, champagne e acqua frizzante portano via il calcio dalle ossa. Uno studio dell’Università di Harvard su donne di età tra i 16 e i 20 anni ha evidenziato come la metà di loro stava già mostrando una perdita ossea a causa dell’eccesso di assunzione di bevande analcoliche gassate. Le bevande gassate hanno, in genere, un eccesso di fosfati, e questo provoca ancora più perdita di calcio.
Assumiamo solo la quantità giusta di proteine con la dieta!
L’eccesso di proteine alimentari aumenta l’acidità dell’organismo, che a sua volta provoca l’aumento di perdita di calcio con le urine. La maggior parte delle persone ha un fabbisogno di alimenti che contengono proteine in quantità da 50 a 100 grammi, tre volte al giorno. La dieta media americana, alla quale ci stiamo adeguando, moltiplica due o tre volte questi valori.
Salvaguardiamo l’acidità dello stomaco!
Molte persone utilizzano farmaci che bloccano l’acido, come pantoprazolo, lansoprazolo, esomeprazolo, omeprazolo, rabeprazolo o cimetidina, ranitidina, famotidina e altri per problemi come bruciore di stomaco, reflusso ed ernia iatale, ma anche come gastroprotettori in caso di utilizzo di altri farmaci potenzialmente gastro lesivi. L’acido dello stomaco è indispensabile per l’assorbimento di minerali come calcio, ferro, magnesio e zinco. Bloccare
l ‘acido dello stomaco aumenta pertanto significativamente il rischio di osteoporosi.
Questi farmaci dovrebbero essere usati al massimo per sei-otto settimane alla volta e non per terapie che durano anni! In effetti, la maggior parte dei sintomi di bruciore di stomaco non sono dovuti all’eccesso di acido gastrico. Due terzi dei pazienti che assumono anti secretori hanno troppo poco acido gastrico, non troppo!
Moderiamo l’uso di bevande contenenti caffeina!
Ogni tazza di caffè che beviamo ci fa perdere 150 mg di calcio nelle urine. Anche il caffè decaffeinato chimicamente non è la risposta, perché contiene sostanze chimiche dannose che interferiscono con il processo di disintossicazione. Naturalmente i tè decaffeinati sono un’opzione migliore, ma se proprio dovete bere caffè caffeinato, aumentate almeno l’assunzione di calcio di 150 mg per ogni tazza che bevete.
Assumere il giusto tipo di calcio!
I prodotti a base di carbonato di calcio sono una delle peggiori fonti di calcio. Il carbonato di calcio è una forma scarsamente assorbita di calcio, molto efficace, invece, a diminuire ulteriormente l’acidità dello stomaco. Il citrato di calcio e l’idrossiapatite di calcio sono le migliori forme di calcio da assumere. Devono essere assunte a stomaco vuoto per un miglior assorbimento e solo 500 mg alla volta (questo è tutto ciò che il nostro organismo può assorbire contemporaneamente). Una dose totale da 1000 a 1200 mg al giorno è adeguata nella maggior parte delle donne in menopausa.
Prendere un po’ di sole!
Anche la carenza di vitamina D è epidemica nella nostra società. La vitamina D è responsabile dell’assorbimento del calcio e, assieme alla vitamina K2, del suo depositarsi nelle ossa. È anche importante per la sua capacità di controllare lo stato di infiammazione dell’organismo, la modulazione del sistema immunitario, la depressione e i disturbi autoimmuni. È prodotta nella pelle quando uscite al sole. Più siete lontani dall’equatore, meno vitamina D producete nella vostra pelle. La maggior parte degli integratori contiene da 400 a 800 UI, il che è assolutamente inadeguato per la maggior parte delle persone alle latitudini settentrionali.
Poiché il cancro della pelle è diventata una grossa preoccupazione, la maggior parte delle persone usa la protezione solare quando escono al sole. La protezione solare blocca oltre il 90% della produzione di vitamina D. Ma invece di mettervi a rischio di cancro della pelle, la soluzione migliore è assumere integratori. I livelli di vitamina D possono essere misurati con una ricetta del vostro medico e gli integratori possono essere titolati di conseguenza.
Tenere gli ormoni sotto controllo!
Il declino ormonale è una delle ragioni più comuni per la perdita ossea dopo la menopausa nelle donne. L’andropausa, l’equivalente maschile della menopausa, causa anche negli uomini una perdita ossea. Livelli adeguati di estrogeni, progesterone e testosterone sono importanti per il mantenimento delle ossa.
Livelli in eccesso di cortisolo, insulina e ormone paratiroideo possono anch’essi causare perdita ossea. La maggior parte dei medici non controlla mai questi livelli. Un elevato livello di calcio nel siero è un indizio che l’ormone paratiroideo potrebbe essere in eccesso. Gli zuccheri raffinati in eccesso e gli amidi nella dieta causano elevati livelli di insulina. L’eccesso di stress causa elevati livelli di cortisolo.
Cambiare la nostra alimentazione!
L’eccesso di zuccheri raffinati e di amidi risulta in un aumento di livelli di insulina e questo risulta in un aumento dell’osteoporosi. La dieta ideale è quella chiamata dieta a “basso indice glicemico”. L’indice glicemico è una misura della velocità con cui gli amidi si trasformano in zucchero nel nostro sangue. Gli alimenti a basso indice glicemico non provocano un rapido aumento dei livelli di zucchero nel sangue e di conseguenza di insulina e includono proteine magre, legumi, verdure e grassi buoni (noci, olive, olio d’oliva, pesce, oli di pesce, avocado). Aumentare l’assunzione di fibre è un modo semplice per abbassare i livelli di zucchero e insulina. La fibra assunta poco prima dei pasti aiuta a rallentare l’assorbimento di zuccheri e grassi e può aiutare ad abbassare i livelli di colesterolo e zucchero nel sangue, tanto quanto i farmaci.
Ridurre lo stress
Lo stress aumenta i livelli di cortisolo. Se i livelli di cortisolo sono alti per lunghi periodi di tempo può causare perdita ossea. Il cortisolo antagonizza l’insulina e porta alla resistenza all’insulina, alla fine aumentando la glicemia e causando la perdita di calcio nelle urine. Basta l’equivalente di 25 cucchiaini di zucchero per causare la perdita di calcio nelle urine.
La riduzione dello stress può includere attività specifiche volte a invocare la “risposta di rilassamento” come yoga, tai-chi, meditazione, massaggio e preghiera. Può anche includere dormire di più, fare una vacanza, iniziare una psicoterapia per difendersi dalle relazioni interpersonali tossiche e fare uno sforzo per non “bruciare la candela ad entrambe le estremità”.
Esercitarsi di più
Quando i muscoli spingono contro le ossa durante l’esercizio fisico, stimolano le ossa e dicono loro che sono necessarie. Qualsiasi esercizio in cui il corpo debba sostenere il suo peso come camminare, fare escursioni, salire le scale e fare sollevamento pesi può aumentare la densità ossea. Anche solo 15-30 minuti al giorno possono essere utili. Anche il sollevamento pesi non ha bisogno di essere fatto con pesi pesanti, ma bastano un minimo di0,5-2 chili di pesi ai polsi o alle caviglie, o piccoli manubri da tenere in mano. Oppure potete usare il vostro peso corporeo e lasciare che la gravità faccia il lavoro. Esercizi a pavimento come sollevamenti delle gambe e sit up, funzioneranno bene. Esercizi come il nuoto e il ciclismo, anche se ottimi per la forza muscolare e la forma fisica non sono portanti di peso e quindi non sono i più benefici per le vostre ossa.
Articolo tratto da: www.medicinafunzionale.org
Scritto da: Alfredo Saggioro, M.D. e Chiara Saggioro. Ph.D.
Il microbiota vaginale sembra essere un parametro preventivo nei confronti della progressione delle infezioni da HPV verso il cancro. La caratteristica del microbiota vaginale a differenza di quello intestinale è la scarsa biodiversità.
le donne portatrici di lesioni a basso grado associate a presenza di HPV hanno statisticamente una biodiversità del microbiota vaginale maggiore.
In assenza di infezione da HPV il LACTOBACILLUS CRISPATUS è predominante. Inoltre tra tutte le combinazioni la presenza di LACTOBACILLUS INERS e/o Gardnerella vaginalis aumenta il rischio di infezioni e la persistenza di HPV nonché la progressione della lesione.
Questa particolare composizione del microbiota vaginale sembra aumentare di 6 volte il rischio di displasia di cervicale rispetto alle donne con dominanza di L. CRISPATUS.
La presenza di Gardnerella crea un biofilm che protegge dalle terapie antibiotiche, inoltre riduce i lactobacilli con una conseguente minore efficacia della risposta immunitaria.
inoltre è l’HPV stesso che contribuisce ad alimentare un sistema proinfiammatorio e ad aumentare la biodiversità del microbiota vaginale con un maggior rischio di sviluppo di forme patologiche.
Terapie mirate a base di LACTOBACILLUS CRISPATUS potrebbero mirare al ripristino del microbiota e costituire una strategia di tipo preventivo.
Ma quale pletora medica. Se c’era, si è dissolta. I dati Eurostat ripresi da Openpolis certificano che rispetto agli altri paesi europei il numero di medici ogni 1000 abitanti in Italia è crollato a 4 (rispetto ai 6 di 20 anni fa) in un contesto di stabilità della popolazione.
Inoltre, rivela che i medici di famiglia sul totale dei professionisti nel nostro paese sono pochi: ben più numerosi sono in Portogallo e in Francia. Come tendenza, nei grandi servizi sanitari nazionali i Mmg tendono ad esser di più quando dipendenti, mentre tanti convenzionati si trovano nei paesi con mutue. La ricerca sui ventisette stati membri parte dall’assunto che più medici danno più risposte in tempo di pandemia. E scopre che in Europa ci sono sacche sovrappopolate ed altre sorprendentemente sguarnite come il Flevoland, polder danese a due passi da Amsterdam grande poco meno della Val d’Aosta ma ben servito. ma scopre soprattutto che nel nostro paese c’è stato un crollo della “classe medica” negli ultimi 20 anni, che questo crollo è spiccato al Nord e non si ferma, e che sulle cause no tutto è chiaro, ad esempio non sembra esserci nesso con il blocco degli stipendi nella dipendenza pubblica. Se a fronte di 20 anni di stagnazione in Italia nei paesi dell’est il reddito è raddoppiato, in Grecia e in Portogallo quello stesso reddito è crollato.
Partiamo da lontano, dal Duemila, da quegli anni in cui ancora tanti pensavano che l’Italia avrebbe continuato a sfornare un surplus di laureati in Medicina e specialisti in camice. Il rapporto Ocse Health Data nel 2002 segnalava che il nostro paese con 6 abilitati alla professione ogni 1000 abitanti era il primo in Europa per densità di medici. In Germania ce n’erano 3,6 per 1000 residenti, in Francia 3,3 come in Spagna, nel Regno unito solo 1,8. Il nostro paese aveva una sovrabbondanza oggettiva rispetto agli altri servizi sanitari pubblici (Spagna, Gran Bretagna) ed in relazione al numero di infermieri. quindici anni dopo, i dati Eurostat rivelano che l’Italia aveva posto in atto una politica di contenimento delle lauree: i medici erano scesi a 5 ogni 1000 abitanti, in Germania erano saliti a 4, in Francia a 3,5 e nel Regno Unito erano saliti a 3. Ma attenzione, in ciascuno di questi tre paesi, per ogni medico c’erano nel 2015 tre infermieri, mentre in Italia la proporzione era di 1,2 infermieri per medico. nel Sud Europa, due paesi – Grecia e Portogallo – ci avevano superati e i greci sulla carta disponevano di oltre 6 medici per 1000 abitanti.
I nuovi dati Eurostat, riferiti al 31 dicembre 2021, fotografano a valle della pandemia da Covid-19 una situazione ancora leggermente diversa: nell’Unione Europea la densità di medici – che hanno raggiunto 1,8 milioni in tutto il continente ormai privo del Regno Unito – è crescita da 3,7 a 3,9 ogni 1000 abitanti. La Grecia si è mantenuta sui 6,16 medici/1000 abitanti, il portogallo la tallona a 5,5 con l’Austria subito dietro. Il Belgio che denunciava una “pletora” come noi è sceso a 3 e anche l’Italia continua a scendere con i suoi 4, meno dei 4,5 di Germania e Francia, e meno della Spagna. La cifra fin qui include tutti i medici con licenza di esercitare, al lavoro, in pensione o all’estero. Ma la ricerca Eurostat valuta anche l’incidenza dei medici di medicina generale sul resto degli iscritti all’albo. E qui scopriamo che, in paesi come la Grecia solo il 6% del totale è impegnato sul territorio; al contrario, in Portogallo è medico di famiglia (dipendente) il 40% del totale dei medici, percentuale massima in Europa; in Belgio lo è il 37%, in Francia il 35% e in questo caso si tratta di convenzionati con mutue di categoria – lo stato detta solo le regole dei convenzionamenti – mentre in Italia e in Germania i medici di medicina generale si attestano attorno al 17%. Sono tanti invece gli specialisti; ma se, il nostro paese è in linea ormai con la Germania per numero di medici, non lo è per il numero di altri professionisti sanitari.
La ricerca Openpolis mira a mettere in relazione la qualità della risposta alla pandemia con la disponibilità di personale sanitario e di medici: quest’ultima cresce con dinamiche no del tutto intuitive. La densità di medici in Europa si concentra intorno alle grandi capitali (ma non in tutte le metropoli). Da noi, ad esempio, la massima rispetto agli abitanti (5 per 1000) si raggiunge nel Lazio, in torno a Roma, in Sardegna e in Liguria, dove l’età media dei residenti è alta. L’Austria, che per densità di medici è tra noi e la Grecia, confina con un Sud Tirolo che per l’Italia ha la più bassa densità insieme a tutto il nostro bacino alpino. E il Nord Italia ha densità basse, più vicine a quelle del Regno Unito piuttosto che a quelle di stati a noi limitrofi, solo ieri presi ad esempio di “nordica” parsimonia ancor più che di buona programmazione.
Articolo tratto da Doctor33 del 06 febbraio 2022
Tratto da MASSIMO SPATTINI (ABSTRACT)
Un problema molto frequente nella donna intorno ai 40 anni spesso risolvibile mediante l’uso degli ormoni bioidentici.
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La dominanza estrogenica consiste in una situazione di sbilanciamento ormonale nel quale si hanno livelli di estrogeni più elevati rispetto al progesterone. E’ più frequente a partire dai tardi 30 e 40 anni e la sua incidenza aumenta con l’avvicinarsi della menopausa. A livello sintomatologico è associata alla sindrome premestruale, all’endometriosi, alla ritenzione idrica, all’aumento del peso, stanchezza, irritabilità, ansia e disturbi del sonno e ad un ciclo mestruale più prolungato. Le cause possono essere dovute ad un’alimentazione troppo ricca di carboidrati raffinati, cibi industrializzati, all’inquinamento ambientale sempre più contaminato da xenostrogeni contenuti in pesticidi, plastica, propellenti, prodotti per la cura della persona, tappezzeria e fitoestrogeni (come quelli contenuti nella soia). Lo stress è un’altra causa molto importante perché favorisce i cicli anovulatori e se non c’è l’ovulazione non c’è la produzione del progesterone della seconda fase del ciclo che è quella luteale. Inoltre essendo il progesterone nella cascata di produzione ormonale il precursore del cortisolo, se viene prodotto più cortisolo, come avviene in situazioni di stress, il progesterone viene “rubato” per produrre cortisolo. Questo favorisce un circolo vizioso in quanto lo stress favorisce l’estrogeno dominanza che causa insonnia ed ansia in quanto il progesterone ha un effetto rilassante agendo a livello dei recettori GABAergici del cervello. L’insonnia aumenta la produzione di cortisolo che aumenta l’estrogeno dominanza. Si instaura così un circolo vizioso che porta a stanchezza, disturbi del controllo glicemico, aumento di peso, ansia e depressione. Spesso questa situazione che riguarda molte donne intorno ai 40 anni viene trattata con ansiolitici o addirittura con antidepressivi che non fanno altro che peggiorare la situazione, mentre il vero obiettivo dovrebbe essere quello di eliminare la dominanza estrogenica. La cura ovviamente deve avvenire tramite l’eliminazione dei fattori scatenanti adottando una dieta con cibo fresco e biologico, con integratori di magnesio, zinco e vitamina B6, riducendo la contaminazione da xenormoni e attuando modifiche dello stile di vita, praticando esercizio fisico in maniera corretta e tecniche di rilassamento per eliminare lo stress. Ma se ciò non bastasse è opportuno ricorrere all’uso degli ormoni bioidentici, cioè il progesterone, da non confondere con i progestinici che sono farmaci dotati di effetti collaterali gravi. Una carenza di progesterone protratta favorisce l’insorgenza dell’osteoporosi, del cancro al seno e all’utero.