I sistemi immunitari di uomini e donne differiscono per alcuni aspetti. Un team di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma e dell’Imperial College di Londra ha approfondito la questione evidenziando come il testosterone e la riduzione di livelli di estrogeni alterino l’equilibrio tra due “sistemi” di segnalazione immunitaria: l’Interferone di tipo 1 (IFN-1) e i segnali pro-infiammatori come il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α).
Uno studio condotto da scienziati del Karolinska Institutet di Stoccolma e dell’Imperial College di Londra ha evidenziato, per la prima volta, quali aspetti del sistema immunitario sono regolati dagli ormoni sessuali e gli impatti che questo fenomeno ha sullo stato di salute di uomini e donne. Lo studio è stato pubblicato da “Nature”.
E’ noto che le malattie possono colpire uomini e donne in modo diverso, probabilmente a causa di piccole differenze nei sistemi immunitari dei due sessi. Per approfondire questo aspetto i ricercatori del Karolinska Institutet hanno reclutato 23 uomini transgender, registrati come “femmine” alla nascita e che successivamente si sono sottoposti a trattamento con testosterone.
Il team ha raccolto campioni di sangue dai partecipanti prima del trattamento e, successivamente, dopo tre mesi e un anno di terapia, per analizzare eventuali differenze nelle cellule immunitarie e nelle proteine nel sangue. Una volta identificate queste differenze, i ricercatori hanno confrontato i campioni di sangue raccolti con quelli di 11 donne donatrici per appurare se le differenze fossero direttamente collegate all’aumento di testosterone o indirettamente alla riduzione degli estrogeni.
L’analisi ha evidenziato che l’aumento del testosterone e la riduzione dei livelli di estrogeni alterano l’equilibrio tra due “sistemi” di segnalazione immunitaria che hanno implicazioni dirette su come il sistema immunitario risponde a infezioni e malattie: L’interferone di tipo 1 (IFN-1) e i segnali pro-infiammatori come il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α).
Secondo Petter Brodin, autore senior della ricerca, “lo studio può avere un impatto significativo non solo sulla comprensione di come le malattie colpiscono in modo diverso uomini e donne, ma anche nell’ottica di sviluppare nuovi trattamenti per malattie immunitarie e tumori”.
Fonte: Nature 2024
L’aderenza a una dieta mediterranea è associata a una significativa riduzione della mortalità per tutte le cause delle malattie cardiovascolari tra i sopravvissuti al cancro a lungo termine.
Uno studio italiano apparso da poco sulla rivista JACC: CardioOncology in forma di research letter rivela che l’aderenza a una dieta mediterranea è associata a una significativa riduzione della mortalità per tutte le cause delle malattie cardiovascolari tra i sopravvissuti al cancro a lungo termine.
La ricerca coordinata da Marialaura Bonaccio, del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione presso l’IRCCS Neuromed di Pozzilli, offre nuovi spunti su come la dieta possa influenzare la longevità e la qualità della vita dei pazienti oncologici.
Lo studio ha utilizzato i dati del progetto Moli-sani, una coorte di popolazione del Molise, che ha arruolato 24.325 uomini e donne tra il 2005 e il 2010. Sono stati analizzati i dati di 802 partecipanti che hanno riportato una diagnosi di cancro al momento della visita inziale e che hanno fornito informazioni dettagliate sulla loro dieta e trattamento oncologico. L’aderenza alla dieta mediterranea è stata misurata utilizzando un punteggio specifico (MDS) e i partecipanti sono stati seguiti fino al 31 dicembre 2020 per valutare i tassi di mortalità.
Durante il periodo di follow-up di 12,7 anni, sono stati registrati 248 decessi per tutte le cause, di cui 59 per malattie cardiovascolari e 140 per cancro. L’analisi dei dati ha rivelato che ogni incremento di 2 punti nel MDS era associato a una riduzione del 16% della mortalità per tutte le cause e del 31% della mortalità per malattie cardiovascolari. Tuttavia, non è stata osservata un’associazione significativa con la mortalità per cancro.
La metodologia dello studio includeva l’uso di un questionario alimentare semiquantitativo somministrato da un intervistatore per valutare l’assunzione dietetica nell’anno precedente.
“Il mantenimento o l’adozione di una dieta mediterranea tradizionale anche dopo una diagnosi di cancro può essere benefico” concludono Bonaccio e colleghi, invitando a portare avanti ulteriori ricerche per sviluppare raccomandazioni dietetiche specifiche per i sopravvissuti al cancro.
-JACC: CardioOncology 2024-
Gli effetti della stimolazione ovarica sull’incidenza dei tumori al seno e ginecologici rimangono controversi.
Un team di ricercatori ha svolto una meta-analisi con la finalità di valutare il rischio di cancro secondario alla stimolazione ovarica. Dei 22713 studi inizialmente reperiti dopo un’attenta esplorazione della letteratura, gli esperti hanno selezionato e incluso nell’analisi 28 documenti ritenuti idonei.
I risultati hanno mostrato che l’impatto del cancro ovarico (RR = 1,33, [1,05; 1,69]) e di quello cervicale (RR = 0,67, [0,46; 0,97]) risulta significativo per quanto riguarda gli effetti complessivi.
Nell’analisi dei sottogruppi, la stimolazione ovarica appare rappresentare un fattore protettivo per il cancro mammario nella popolazione nullipara (RR = 0,81 [0,68; 0,96]). L’incidenza del cancro ovarico è invece statisticamente significativa nel sottogruppo dei caucasici (RR = 1,45, [1,12; 1,88]) così come lo è nel sottogruppo asiatico (RR = 1,51, [1,00; 2,28]) per il cancro dell’endometrio.
Infine, i risultati depongono per un ruolo di protezione svolto dalla stimolazione ovarica per quanto riguarda l’incidenza del cancro della cervice nel gruppo asiatico (RR = 0,55 [0,44; 0,68]) e nella popolazione multipara (RR = 0,31, [0,21; 0,46]).
-Crit Rev Oncol Hematol. 2024-
L’analisi non si limita a considerare i livelli di mercurio nei capelli materni come unico indicatore di esposizione, ma include anche la quantità di pesce consumato e il contenuto medio di mercurio del pesce stesso.
Uno studio uscito sull’American Journal of Epidemiology ha usato un metodo innovativo per valutare gli effetti combinati dell’esposizione al metilmercurio (MeHg) e del consumo di pesce sullo sviluppo neurocognitivo dei bambini. Lo studio, coordinato da Sally W. Thurston del Dipartimento di Biostatistica e Biologia Computazionale dell’Università di Rochester, nello stato di New York, ha coinvolto 361 bambini di otto anni.
Il metodo proposto dallo studio per affrontare questo problema consiste nel separare l’esposizione al metilmercurio dal consumo di pesce. In altre parole, l’analisi non si limita a considerare i livelli di mercurio nei capelli materni come unico indicatore di esposizione, ma include anche la quantità di pesce consumato e il contenuto medio di mercurio del pesce stesso. Questo approccio permette di valutare in modo più preciso gli effetti individuali e combinati di queste due variabili.
I campioni di capelli delle madri che avevano consumato pesce durante la gravidanza, raccolti circa 10 giorni dopo il parto, sono stati utilizzati per misurare i livelli di mercurio, riflettendo l’esposizione al MeHg nel terzo trimestre di gravidanza. Il consumo di pesce è stato valutato tramite un questionario sulla frequenza alimentare (FFQ) somministrato alle madri nello stesso periodo.
Le valutazioni neurocognitive dei bambini, effettuate a otto anni, hanno incluso test standardizzati del QI, abilità linguistiche, memoria e attenzione. I risultati hanno mostrato che il consumo di pesce durante la gravidanza è generalmente associato a effetti benefici sui bambini, ma solo quando il pesce consumato ha un basso contenuto di mercurio. Al contrario, il consumo di pesce con alto contenuto di mercurio è stato associato a effetti negativi.
“Consumare pesce con basso contenuto di mercurio durante la gravidanza può offrire benefici neurocognitivi significativi per i bambini” commenta Thurston.
– Am J Epidemiol. 2024-
La menopausa viene oggi riconosciuta non solo come un processo endocrino, ma anche come un fattore di rischio per il declino cognitivo. Il lavoro ha analizzato dati raccolti attraverso questionari dettagliati e test cognitivi.
Uno studio pubblicato su “Neurology” ha affrontato la complessa interazione tra l’età di insorgenza della menopausa, il rischio vascolare e l’evoluzione cognitiva nel corso di tre anni.
Condotta dai ricercatori del “Canadian Longitudinal Study on Aging”, la ricerca guidata da Jennifer Rabin del “Sunnybrook Research Institute” di Toronto (Canada), ha messo in luce come la menopausa precoce associata a un elevato rischio vascolare possa esacerbare il declino cognitivo, suggerendo nuove vie per strategie preventive mirate.
La menopausa, fase biologica che segna la fine del periodo riproduttivo femminile, viene oggi riconosciuta non solo come un processo endocrino, ma anche come un fattore di rischio per il declino cognitivo.
Il lavoro di Rabin e colleghi ha valutato 8360 partecipanti post-menopausa e un analogo gruppo di uomini, analizzando dati raccolti attraverso questionari dettagliati e test cognitivi.
Attraverso un modello lineare, lo studio ha esaminato le interazioni indipendenti e congiunte dell’età alla menopausa e del rischio vascolare sulla funzione cognitiva.
I risultati hanno rivelato un’interazione significativa tra l’età alla menopausa e il rischio vascolare, evidenziando come una menopausa precoce unita a un alto rischio vascolare risulti sinergicamente collegata a punteggi cognitivi più bassi al follow-up.
Inoltre, la terapia ormonale sostitutiva contenente estrogeni non ha modificato questa associazione, sebbene abbia mostrato una tendenza ad attenuare l’associazione tra menopausa precoce e calo cognitivo.
“Il nostro studio suggerisce che una menopausa più precoce può peggiorare gli effetti di un elevato rischio cardiovascolare sul declino cognitivo” spiega Rabin. “Poiché il nostro studio ha seguito le partecipanti solo per tre anni, sono necessarie ulteriori ricerche su periodi di tempo più lunghi.
I nostri risultati evidenziano che l’età della menopausa e il rischio cardiovascolare dovrebbero essere presi in considerazione nello sviluppo di strategie di prevenzione del declino cognitivo”.
-Neurology 2024-
Il rischio cardiovascolare di una donna può aumentare in modo considerevole dopo la menopausa, raggiungendo rapidamente quello degli uomini di età e profilo di salute simile.
A mostrarlo sono i risultati di uno studio presentato da Ella Ishaaya della Harbor-UCLA Medical Center, in California, alla Annual Scientific Session dell’American College of Cardiology.
Lo studio sottolinea l’importanza di riconoscere e affrontare i segnali di rischio delle malattie cardiache nelle donne che perdono la protezione degli estrogeni dopo la menopausa.
-Ishaaya “CAC progression in men and women: is there an infection at menopause?”-
A questo proposito vi ricordo che una terapia ormonale sostitutiva, meglio se a base di ORMONI BIOIDENTICI e soprattutto personalizzata sulla paziente, può nettamente ridurre il rischio cardiocerebrovascolare nelle pazienti in menopausa.
Per ulteriori precisazioni 3667401308
L’esposizione a questi inquinanti per via aerea e alimentare nella mezza età impoverisce le riserve di ovociti, accelerando menopausa e disturbi
Secondo quanto si legge in un articolo pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, le donne di mezza età esposte a metalli pesanti hanno maggiori probabilità di avere riserve di ovociti impoverite mentre si avvicinano al loro ultimo periodo mestruale. Questa condizione, nota come ridotta riserva ovarica, potrebbe peggiorare eventuali disturbi durante e dopo la menopausa, scrivono i ricercatori dell’Università del Michigan (UM) che hanno firmato lo studio.
I metalli pesanti come il cadmio, il piombo e il mercurio, sono inquinanti spesso presenti nell’aria come risultato di attività industriali, e anche quando la concentrazione nell’atmosfera resta bassa si possono accumulare nel terreno entrando nella catena alimentare via terra e via acqua.
«L’esposizione alle tossine dei metalli pesanti può avere un impatto significativo sui disturbi di salute legati a un invecchiamento precoce delle ovaie: vampate di calore, osteoporosi, rischio di cardiopatie e declino cognitivo» afferma il coautore Sung Kyun Park, professore associato di epidemiologia e scienze della salute ambientale all’UM, ricordando che le precedenti ricerche epidemiologiche collegano l’esposizione ai metalli all’invecchiamento riproduttivo delle donne con meccanismi non ben compresi.
«L’interruzione della follicologenesi ovarica e ridotta riserva ovarica potrebbero essere un percorso attraverso cui i metalli influiscono sugli ormoni e sulla riproduzione» ipotizzano gli autori, che hanno valutato le associazioni tra esposizione a metalli pesanti e livelli ematici di ormone anti-Mülleriano (AMH), un marcatore della riserva ovarica, in 549 donne tra 45 e 56 anni partecipanti allo “Study of Women’s Health Across the Nation” ed etnicamente diverse: 45% caucasiche, 21% afroamericane, 15% cinesi e 19% giapponesi.
«Sono state eseguite 2.252 misurazioni AMH ripetute entro 10 anni dal loro ultimo periodo mestruale incrociando i dati con le concentrazioni urinarie di arsenico, cadmio, mercurio e piombo» riprende Park. E i risultati ottenuti dimostrano che le donne con maggior concentrazioni di arsenico o mercurio urinario hanno concentrazioni di AMH più basse al loro ultimo periodo mestruale, mentre elevati livelli di cadmio e mercurio si associano a un declino accelerato dell’AMH nel tempo.
Conclude l’epidemiologo: «La tossicità ovarica di metalli pesanti come cadmio, arsenico e mercurio può diminuire la riserva ovarica portando a una menopausa anticipata».
-Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2024-
Le donne di mezza età esposte a metalli tossici avrebbero meno ovuli nelle ovaie, man mano che si avvicinano alla menopausa. E’ la conclusione cui è arrivata una ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, guidata da Ning Ding, dell’Università del Michigan di Ann Arbor (USA).
Una riserva ovarica ridotta si verifica quando le donne hanno meno ovociti rispetto alla loro età. Il periodo di transizione che porta alla menopausa, comprende una fase in cui le donne avvertono sintomi quali cambiamenti nei cicli mestruali, vampate di calore e sudorazione notturna. La transizione inizia tra i 45 e i 55 anni e di solito dura circa sette anni.
Per lo studio, i ricercatori hanno collegato i livelli di metalli pesanti quali arsenico, cadmio, mercurio e piombo, misurati nelle urine, con l’invecchiamento riproduttivo delle donne e la riserva ovarica. I metalli pesanti si trovano comunemente nell’acqua potabile, nell’aria inquinata e negli alimenti contaminati e sono considerati sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino.
Il team ha incluso 549 donne di mezza età che avevano aderito allo Study of Women’s Health Across the Nation (SWAN) e che stavano andando verso la menopausa ed ha analizzato i dati degli esami del sangue fino a 10 anni prima dell’ultimo ciclo mestruale. Ha scoperto, così, che le donne con livelli più elevati di metalli nelle urine avevano maggiori probabilità di avere livelli di ormone antimulleriano (AMH) più bassi, un indicatore di una ridotta riserva ovarica.
-Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism (2024)-
Le donne in menopausa che nuotano in modo regolare in acque fredde riferiscono miglioramenti significativi dei sintomi fisici e mentali.
A mostrarlo è uno studio condotto da ricercatori dell’University College di Londra, nel Regno Unito, coordinati da Joyce Harper. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Post Reproductive Health.
La ricerca ha intervistato 1.114 donne, 785 delle quali erano in menopausa, per valutare gli effetti del nuoto in acqua fredda sulla loro salute e sul loro benessere.
I risultati hanno mostrato che le donne in menopausa che nuotavano regolarmente in acqua fredda avevano un significativo miglioramento a livello di ansia (come riferito dal 46,9% delle donne), di sbalzi di umore (come riportato dal 34,5%), di umore basso (nel 31,1% dei casi) e di vampate di calore (nel 30,3%).
Inoltre, la maggioranza delle donne (il 63,3%), nuotava proprio per avere un sollievo dai sintomi. E oltre a questo effetto, le donne hanno affermato che i principali motivi per cui nuotavano in acqua fredda erano per stare all’aperto, migliorare la salute mentale e fare esercizio fisico.
L’effetto positivo del nuotare in acqua fredda, infine, è stato evidenziato anche dalle donne con le mestruazioni, in cui il nuoto ha ridotto l’ansia, nel 46,7% dei casi, gli sbalzi di umore, nel 37,7%, e l’irritabilità, nel 37,6%.
– Post Reproductive Health (2024)-
Lo stress psicologico si associa a una glicemia anormale, portando ad un aumento del rischio di glicemie anormali fino al 135 più alto
Un articolo pubblicato sul “Journal of the Endocrine Society” e firmato dai ricercatori del Massachusetts General Hospital e del Brigham and Women’s Hospital, suggerisce che è importante valutare l’effetto sulla glicemia non solo dello stress in gravidanza, ma anche di quello pregravidico.
«La prevalenza dello stress è aumentata nel corso degli anni, tanto che il National Study of Daily Experiences mostra livelli di stress più elevati nel 2010 rispetto agli anni ’90» afferma il coordinatore dello studio Jorge Chavarro del Dipartimento di epidemiologia alla Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, ricordando che lo stress può influenzare il metabolismo del glucosio e che esistono differenze di genere nello stress percepito, con le donne che riportano livelli di stress autoriferito più elevati rispetto agli uomini.
Per approfondire i legami fra stress, gravidanza e livelli glicemici, gli autori hanno verificato l’eventuale associazione fra stress materno durante il periodo preconcezionale e glicemia in gravidanza in una coorte di donne arruolate nello studio prospettico EARTH (Environment and Reproductive Health), che aveva lo scopo di valutare i determinanti ambientali e dietetici della fertilità.
Tra il 2004 e il 2019 sono state selezionate 1.324 donne di età compresa tra i 18 e i 45 anni che cercavano cure per la fertilità presso il Massachusetts General Hospital Fertility Center, di cui 991 arruolate prima del concepimento.
«Questa analisi include 398 donne che hanno riferito di aver percepito stress preconcezionale all’ingresso nello studio EARTH e di aver misurato i livelli di glucosio in gravidanza» spiegano gli autori, che hanno anche valutato se le associazioni tra stress e glicemia variavano in base alla modalità di concepimento, ossia inseminazione naturale, intrauterina [IUI] e fecondazione in vitro [IVF].
I dati raccolti suggeriscono che lo stress psicologico si associa positivamente a una glicemia anormale. In particolare, le glicemie medie nel primo, secondo e terzo terzile di stress psicologico erano rispettivamente 115, 119 e 124 mg/dL.
Inoltre, le donne nel secondo e terzo terzile di stress psicologico avevano maggiori probabilità, rispettivamente il 4% e il 13% di glicemie anormali rispetto al primo tezile.
Non solo: le donne che hanno concepito con IUI avevano livelli di stress e glicemia più alti rispetto alle coetanee che avevano concepito con IVF.
«Ciò può essere spiegato dal fatto che l’IUI sembra essere meno efficace rispetto all’ IVF, generando un maggiore disagio» ipotizza Chavarro.
– Journal of the Endocrine Society 2024-